venerdì 25 settembre 2015

L'Antapodosis di Liutprando di Cremona

Liutprando di Cremona: Antapodosis, Mondadori - Fondazione Valla

Risvolto
Siamo nel bel mezzo del Medioevo, in quel secolo X quando, sfaldatosi in Occidente l'impero fondato da Carlo Magno, ha inizio un regno d'Italia conteso senza esclusione di colpi dai potenti delle regioni settentrionali con l'appoggio, o l'ostilità, dei sovrani tedeschi e del papa. Liutprando, rampollo di una famiglia di rilievo, nasce a Pavia - capitale del regno verso il 920, vi viene educato, entra sin da bambino a corte cantando nel coro, diviene diacono, viene inviato da Berengario in ambasceria a Costantinopoli. Un contrasto violento con il sovrano lo costringe a riparare presso Ottone I, re di Germania e futuro imperatore, del quale sarà spesso emissario importante. Alla corte di questi, nel 956, l'inviato del califfo di Cordova, Recemundo vescovo di Elvira, esorta Liutprando a comporre un'opera di carattere storiografico. Nasce, allora, l'Antapodosis in sei libri: i primi tre narrano vicende delle quali l'autore ha appreso da altri, gli ultimi di eventi dei quali è stato testimone diretto. È la storia intricata dei "fatti degli imperatori e dei re" di mezza Europa, di forti condottieri e di principi "smidollati" ed "effeminati", e s'intitola Antapodosis perché l'autore l'intende come una "ritorsione", una sorta di vendetta, contro Berengario e la moglie Guilla per quel che essi hanno fatto a lui. Introduzione di Girolamo Arnaldi.

Scritta nel decimo secolo, la «Antapodosis» esce domani per Mondadori L’autore, che porta alla luce fatti altrimenti sconosciuti, si diverte moltiplicando gli stili E tra battaglie e aneddoti aggiunge la sua esperienza di ambasciatore a Costantinopoli
LIUTPRANDO, STORIA E INCANTO 

LO STUDIOSO CHE SCOPRÌ IL GUSTO DEL RACCONTO
14 set 2015  Corriere della Sera di Pietro Citati © RIPRODUZIONE RISERVATA 
Liutprando di Cremona, nato quasi certamente a Pavia attorno al 920, scrisse il più bel libro di storia del Medioevo latino: la Antapodosis, che esce domani, curata con grande perizia da Paolo Chiesa e Girolamo Arnaldi, presso la Fondazione Lorenzo Valla (Mondadori). Come dice Liutprando, il titolo del libro «desta in noi grande stupore». Esso significa «pariglia»: il suo scopo è quello di «narrare, svelare e denunciare» le imprese di Berengario re d’Italia e di sua moglie; e insieme di contraccambiare i benefici delle persone che avevano protetto Liutprando. Il libro fu scritto in esilio: in parte a Francoforte, e in parte nell’isola di Passo, a novecento miglia da Costantinopoli. 
L’Antapodosis parla di se stessa con grandissima fascinazione. Viene opposta ai libri di Cicerone: rispetto a essi sembra soltanto una storia leggera, che racconta fatti contemporanei, dunque indegni di menzione; eppure, commenta Liutprando, perché tacere le guerre dei combattenti di oggi, non meno degni di lode dei grandi del passato? In parte, egli ha visto con i suoi occhi e ascoltato con le sue orecchie i fatti raccontati: in parte, la sua testimonianza riposa su voci ripetute e riflesse. Questa contaminazione e fusione di voci e di narratori riesce, nell’Antapodosis, deliziosa, ed è quasi isolata nei testi degli storici del Medioevo. 
Il grande libro ha due obiettivi principali. Il primo deriva da un passo dei Vangeli, ricordato come motto: «Non c’è nulla di segreto che non sarà svelato, e nulla di nascosto che non verrà alla luce». Prima del racconto di Liutprando, la storia d’Europa e d’Italia affonda nelle tenebre: ma dopo la scrittura brilla e scintilla alla luce. Il secondo è il tentativo di illustrare come Dio governa il mondo e la storia. Dio si diverte: foggia e contempla l’alternarsi delle sorti umane, le loro contraddizioni, il loro vario, coloratissimo gioco. Liutprando lo imita: non gli importa tanto di raccontare la verità, quanto una delectabilis historia, un gioco meraviglioso, che incanti , affascini e diverta i lettori. Quindi egli si sforza di moltiplicare gli stili: ora è ampio, ora stringato, ora secco, ora fiorito. Un altro divertimento — più difficile da scoprire — è quello procurato da Satana, il «perfidissimo nemico del genere umano», che con grande rapidità e astuzia alterna le sue trame, talvolta imitando i modi della Scrittura. 
La materia dell’Antapodosis è vastissima: la storia d’Europa, d’Italia e di Bisanzio nel nono e in una parte del decimo secolo. Ecco la Baviera, la Svevia, la Franconia, la Sassonia, sulle quali regna il potentissimo re Arnolfo, a cui si oppone il re Centebaldo. Ecco Guido e Berengario, che si disputano il regno d’Italia: ecco Roma, governata da papi e papesse. I saraceni conquistano Frassineto, al confine tra l’Italia e la Provenza: infuriano, fanno strage, non risparmiano nulla: risalgono verso Nord, fino ad Acqui, quasi a Pavia: giungono con una flotta a Genova, entrano in città, trucidano gli abitanti: poi invadono la Calabria, la Puglia, Benevento; gli imperatori di Bisanzio mandano senza indugio flotte contro i Saraceni, e hanno la meglio su di loro, che si rifugiano sul monte Garigliano. 
Non riuscendo a sconfiggere Centebaldo, re Arnolfo chiama in Italia gli Ungari — «quel popolo rapace, temerario, ignaro di Dio ma esperto di ogni crimine, bramoso soltanto di strage e saccheggio». «Oh, cieca brama di potere di re Arnolfo!», commenta Liutprando. «Oh, giorno infausto e amaro! Per abbattere un solo, piccolo uomo, si provoca la rovina dell’Europa intera! A quante donne, ambizione cieca, procura la vedovanza, a quanti sacerdoti e uomini di Dio la prigionia, a quante chiese la devastazione, a quante terre popolate lo spopolamento!». 
Gli Ungari distruggono i castelli, mettono a fuoco le chiese, trucidano le popolazioni, bevono il sangue, si precipitano contro il grande esercito di re Ludovico, assalgono i cristiani all’alba, quando essi sbadigliano nel sonno. Ritornano, calando sulla «misera Italia». Piantano le loro piccole tende, che assomigliano a mucchi di stracci, presso il fiume Brenta e mandano esploratori a tre giorni di cammino. La primavera successiva ritornano ancora con un esercito sterminato. Finalmente vengono sconfitti; e promettono di consegnare tutto il bottino, i prigionieri, le armi, i cavalli. Nella battaglia successiva, l’esercito cristiano implora pietà dal cielo cantando il Kyrie eleison: mentre gli Ungari gettano un grido osceno e diabolico: «Hu Hu», il grido di Satana. Infine, nell’anno 924, bruciano Pavia, la quale poi fu salvata grazie «alla gloriosa intercessione» di San Siro. 
La parte più bella dell’Antapodosis è l’ultima, che si svolge a Costantinopoli. Liutprando aveva già rievocato la follia dell’imperatore Michele. Questi, preso da eccessi di follia, faceva condannare a morte anche le persone che gli erano più vicine: ma quando tornava in sé, le rivoleva indietro; e minacciava che, se non gli fossero state restituite, avrebbe ucciso i persecutori. Gesù Cristo apparve in sogno a Michele: il quale riconobbe con lacrime di sangue di essere peccatore e di aver versato sangue innocente. 
Il patrigno di Liutprando, «scelto per la sua rettitudine di vita e il suo garbo nel parlare», venne mandato come ambasciatore presso l’imperatore di Bisanzio, che lo accolse con grandi onori. L’Antapodosis parla della lancia di Costantino il grande: essa aveva nel dorso alcune croci formate da chiodi confitti nella mani e nei piedi di Gesù Cristo; ed era lo strumento con cui Dio univa la terra e il cielo, la pietra angolare che aveva fatto di due cose lontane e opposte una cosa sola. 
Quando l’imperatore di Bisanzio chiese a re Berengario di mandargli un ambasciatore, costui scelse Liutprando, perché sapeva il greco ed era maestro di eloquenza. Liutprando lasciò Pavia il primo agosto del 949: dopo tre giorni giunse a Venezia; il 25 agosto partì da Venezia, e il 17 settembre giunse a Costantinopoli: fu il culmine della sua esistenza. Egli offrì all’imperatore i doni che aveva portato con sé da Pavia: nove bellissime corazze, sette scudi con borchie dorate, due coppe d’argento ricoperto d’oro, spade, lance, giavellotti e quattro preziosissimi schiavi eunuchi. Vide il palazzo, che per solidità e bellezza era superiore a tutte le fortezze che aveva visitato fino a quel momento, ed era sorvegliato da una folla di guardie. 
Un altro palazzo, «di mirabile grandezza e bellezza», veniva chiamato dai Greci «Magnaura», cioè la «la Grande Aura». Davanti al trono dell’imperatore c’era un albero di bronzo, laminato d’oro: i rami erano pieni di uccelli di diverso genere, ognuno dei quali riproduceva il verso proprio della sua specie. Il trono dell’imperatore era dotato di un astuto congegno, che lo faceva apparire ora basso, dopo un attimo più alto, e poi subito altissimo: dei leoni enormi, ricoperti d’oro, battevano la coda per terra e ruggivano aprendo la bocca e muovendo la lingua. 
Quando Liutprando giunse, i leoni si misero a ruggire, e gli uccelli a cantare, ognuno col suo verso. Egli si chinò tre volte in adorazione davanti all’imperatore. Quando rialzò la testa, l’imperatore, che prima era seduto a livello del suolo, di colpo balzò vicino al soffitto, con vesti diverse. Il segreto di Bisanzio consisteva in queste meraviglie, che esprimevano il mobile mistero della regalità, il suo fasto e la sua illusione.

Uccidere con il ridicolo Le sapide «ritorsioni» del vescovo Liutprando 13 gen 2016  Libero MARIO BERNARDI GUARDI 
Una sorte davvero amara quella di papa Formoso (891-896). Nell’elezione imperiale, si era fatto paladino di Arnolfo di Carinzia contro Adalberto di Spoleto, attirandosi odi e rancori in gran quantità. Anche dopo morto. Tanto è vero che papa Sergio III, «empio e ignorante delle sante dottrine», ma sostenuto da Adalberto, fece esumare il corpo del «religiosissimo» predecessore, lo fece sistemare sul trono papale e lo apostrofò violentemente, trattandolo da ambizioso e maneggione. Non basta: infatti ordinò che gli fossero strappati i paramenti sacri, amputate tre dita e che fosse gettato nel Tevere. Però, ecco che alcuni barcaioli lo ripescarono: e così quel che restava di Formoso fu posto in un’urna e questa portata a San Pietro. Miracolo! Al suo passaggio, certe statue di santi fecero un reverente saluto. Così scrive il lombardo Liutprando (meglio conosciuto come Liutprando di Cremona, la città che lo vedrà vescovo nel 961), nella sua Antapodosis (Fondazione Lorenzo Valla/ Mondadori, pp. 568, euro 30, a cura di Paolo Chiesa, con un’introduzione di Gerolamo Arnaldi). 
L’opera, piena di storie meravigliose, sanguinose e grottesche - siamo alle soglie dell’Anno Mille ed è da un bel po’ che si avvertono nell’aria profumi di Apocalisse - porta sulla scena imperatori e papi, principi e re, dame e puttane. Frastagliatissimo il paesaggio, tra un Occidente in rapida decadenza dopo lo sfaldamento dell’impero fondato da Carlo Magno e un Oriente dove aurei splendori si coniugano a cupe nefandezze. 
L’Antapodosis, scritta in latino, è composta da sei libri: i primi tre narrano vicende di cui l’autore ha avuto notizia da altri; gli ultimi tre, eventi di cui è stato diretto protagonista. Il titolo, greco, significa “pariglia” e cioè “contrapposizione”, “ritorsione”: lo scopo infatti è rendere pan per focaccia all’imperatore Berengario, che Liutprando aveva servito come ambasciatore, prima che tra i due esplodesse un violento contrasto. A seguito del quale, Liutprando era stato costretto a riparare presso Ottone, re di Germania e futuro imperatore. 
Va detto che il Nostro ci tiene a far sfoggio di cultura, inanellando citazioni da una miriade di scrittori latini e greci. Ma i suoi aneddoti li sa cucinare in un salsa davvero saporita, facendo diventar comico il truculento. Aggiungiamo che, se ha comprensibili motivi di risentimento nei confronti di Berengario e della sua regal consorte Guilla, donna di non eccelse virtù (Liutprando racconta di quando occultò un balteo d’oro «nelle latebre del corpo»), non risparmia nessuno, né principi né marchesi, né re né vescovi. E si sa che il ridicolo uccide: pensiamo al povero conte palatino Giselberto che si presenta senza mutande davanti al vincitore Berengario I, tra le risate dei presenti. 
E per tornare a papa Sergio, Liutprando ci ricorda che da una relazione con Marozia, figlia di Teodora - patrizia romana nonché «puttana senza vergogna» - divenne papà di un pargolo: Giovanni. Anche lui futuro papa, a seguito di mene e tresche propiziate dalla già citata Teodora che, «infuocata dal calore di Venere», se l’era portato a letto spesso e volentieri.

Medievalia Tra Boezio e Liutprando
Il rapporto tra libertà, necessità e contingenza è ancora al centro dell’interesse di logici e filosofi di Maria Bettetini Il Sole Domenica 17.1.16
I primi furono scrittori di corte, dediti ad annotare le gesta dei regnanti, per esempio Callistene al seguito di Alessandro Magno, nel V secolo a.C. le guerre persiane di Erodoto, detto da Cicerone «il padre della storia». Giulio Cesare non si fidava invece di nessuno, e avrebbe fatto meglio a essere ancora più diffidente dei suoi amici, quindi scrisse di sé in terza persona, nel De bello gallico. La storia nacque per esaltare qualcuno, denigrare altri, trarre insegnamenti morali dalla «maestra della vita». Il cristianesimo apparentemente seguì questo indirizzo, infatti nella Città di Dio Agostino di Ippona riempie metà dell’opera dileggiando le superstizioni romane e i concetti filosofici pagani. Però con una fondamentale differenza: per la prima volta si parla di senso della storia, di inizio e fine, si fa teologia (e filosofia) della storia. Da questo punto di vista, il Medioevo si presenta come fervido vivaio di resoconti bellici e “cortesi”, insieme alla riflessione sul senso dello scorrere del tempo. Con Boezio, già tra V e VI secolo, si pone e risolve una questione appassionante, ancora terreno di dibattito nelle teologie della Riforma, il tema del futuro: se prevedibile, previsto, pre-determinato, insomma se necessario oppure no. Proclo, e con lui gli ultimi grandi neoplatonici, aveva già dato una possibile soluzione, Boezio ne confeziona una adeguata alla nuova religione: Dio, nella sua eternità, intesa come un puntuale possesso di tutto il tempo allo stesso tempo – mi scuso per la ripetizione -, Dio dunque “vede” già tutto il futuro, ma non vi interviene come un burattinaio. Il fatto di sapere già quale sarà la mia scelta morale questo pomeriggio (telefonerò all’anziana zia che poi parla per un’ora, ma che brama una telefonata?) non mi costringe a decidere per l’una o l’altra opzione. Sembrerebbe tutto molto chiaro: Lui sa, io no e decido liberamente. I problemi sorgono poi nel definire come e perché quell’assoluta sapienza si possa intersecare allo scorrere del tempo: ma che libertà è se Dio sa già tutto? E allora perché non interviene per evitare le cose malvagie? E perché dovrebbe ascoltare una preghiera? L’enorme abisso del male. Boezio non ha dubbi, infatti Filosofia (nella Consolazione) conclude che «non inutilmente sono riposte in Dio speranze e preghiere, le quali, quando sono rette, non possono essere prive di efficacia». Approfondire porterebbe ad altre storie, qui interessa la storia. Ecco due pubblicazioni che perfettamente rendono la duplice valenza della storia nel Medioevo. La prima è uno studio di Riccardo Fedriga, che prende spunto dalle parole di Boezio per seguire il tema della necessità o contingenza del futuro nelle opere di Sigieri, di Tommaso d’Aquino, soprattutto di Duns Scoto e del dibattito sul fatalismo di Ockham. Temi di obsoleta teologia? Non parrebbe, se nell’ultimo capitolo Fedriga espone con chiarezza i contributi a proposito di libertà e contingenza di logici e filosofi a noi contemporanei. Su tutt’altro versante, la pubblicazione dell’Antapodosis di Liutprando per la cura di Paolo Chiesa. Noto come Liutprando di Cremona, la città di cui fu vescovo, nacque a Pavia intorno al 920, in una agiata famiglia di mercanti. Sono anni intensissimi, il Regno d’Italia sfuggito allo scettro dei Carolingi è sballottato tra pretendenti franchi, germanici, e tra i feudatari dell’Italia stessa. Liutprando ha la fortuna di poter studiare, quindi viene inviato almeno due volte in missioni paradiplomatiche a Costantinopoli. Trova posto a corte, ma a breve ha un forte contrasto con il re Berengario e sua moglie Guilla. Da qui l’esilio e il rifugio alla corte di Ottone I, re di Germania. Qui, nel 958, inizia a scrivere l’Antapodosis, il cui titolo è spiegato nel III libro: come si legge in Isaia tradotto dai Settanta, l’Antapodosis è il vendicatore mandato da Dio, la giusta retribuzione per i malvagi. Liutprando vuole, con la sua penna, compiere giustizia, dato che quella umana non arriva e per quella divina c’è troppo da aspettare. Quindi per Ottone solo parole di devota sottomissione e di lode, per Berengario e Guilla disprezzo che arriva a metterli in ridicolo. La particolarità di queste cronache, infatti, è il doppio registro, si tratta di una delectabilis historia e insieme una storia esemplare, che insegna una morale raccontando fatti veri o verosimili accaduti nella prima metà del X secolo, nelle corti frequentate da Liutprando. Per lo stile, l’autore di riferimento è Terenzio, insieme ai poeti (Virgilio, Orazio, Giovenale), ai retori (Cicerone su tutti), ai Padri della Chiesa, fino alla Consolazione di Boezio, citato addirittura nel prologo. Il risultato è davvero originale, per questo ecclesiastico che non esita a piegare la storia e i personaggi a suo uso, che fa sapere a tutti di conoscere il greco, di essere colto, di avere subito molte, troppe ingiustizie. E allora, abbasso gli italici: «perché sempre gli Italici vogliono avere due padroni per tenere a freno uno con la paura dell’altro». Un’analisi che viene sempre utile. E poi Berengario, definito ironicamente «davvero timorato di Dio», che sceglieva i vescovi con criteri suoi, e quanto accorte fossero queste scelte «lo dichiarano, con gli effetti e coi lamenti, i sudditi rapinati, le viti abbattute, gli alberi scorticati, i tanti occhi cavati, le interminabili contese». E le donne, se non sono intelligenti come quelle di Terenzio, sono però astute, capaci di dominare tutti quei disgraziati uomini, siano re siano popolani. Se infine avessimo dubbi sulla leggerezza della penna di questo autore del Medioevo più oscuro, apriamo il quarto libro della sua Vendetta (o Giustizia divina), all’inizio leggiamo: «Libro quarto. Buona lettura!» (Incipit liber quartus feliciter). 

1 commento:

Anonimo ha detto...

non ho trovato l'articolo che parla degli ungari